La scelta della data del matrimonio era un’operazione piuttosto delicata: i Romani erano molto superstiziosi, quindi era necessario trovare un giorno slegato da mesi o periodi di cattivo augurio. Il momento migliore era la seconda metà di giugno.

Il giorno prima delle nozze la sposa consacrava i giochi della sua infanzia e consegnava la toga praetexta orlata di rosso alla Fortuna virginalis (dea Fortuna delle fanciulle). Poi indossava l’abito nuziale: una tunica bianca senza orli o cuciture lunga fino ai piedi, cinta in vita da una cintura chiusa con il nodus herculeus, che il marito poteva sciogliere la notte delle nozze. Si copriva poi di un mantello color zafferano e indossava dei sandali dello stesso colore. Si copriva la testa con una cuffia o una rete rossa e andava a dormire così abbigliata.

Il mattino delle nozze i capelli le venivano divisi in sei trecce (per mezzo di uno spillone) composte attorno alla fronte e tenute insieme da bende tessute secondo un antico rituale. Il viso le veniva avvolto da un velo color arancione. Nell’età di Cesare e di Augusto sul velo veniva posta una corona intrecciata di maggiorana e di verbena, piante poi sostituite da mirto e fiori di arancio.

Le piante venivano usate anche per abbellire la casa della sposa, addobbata a festa con corone, fiori, piante sempreverdi, mirto, lauro e fasce colorate. All’ingresso si stendevano tappeti e nelle case patrizie venivano aperti gli armadi che custodivano le immagini degli antenati.

Primo passo del rito nuziale era un sacrificio augurale che si svolgeva nell’atrio della casa o in un santuario. Presenziavano gli aruspici, dieci testimoni che apponevano il loro sigillo sul contratto di matrimonio, il Pontifex Maximus (massima autorità religiosa della Roma pagana) e il Flamen Dialis, il flamine di Giove. Incerta la divinità cui era rivolto il sacrificio (Giunione o Giove Capitolino) e l’animale scelto (pecora, bue, maiale). Durante il sacrificio gli aruspici esaminavano le viscere degli animali per trarne responsi: la cerimonia poteva continuare solo con l’assenso degli indovini.

Gli sposi seduti accanto su sgabelli ricoperti di pelle di pecora mangiavano una focaccia di farro. Consumare il pane insieme era simbolo della vita coniugale e favoriva concordia e affetto. Dopo aver mangiato insieme, la coppia faceva il giro dell’altare seguendo un inserviente che portava il del, il cesto con gli arredi sacri.

Si passava poi alla parte più giuridica della cerimonia, con la firma delle tabulae nuptiales, contenenti il contratto matrimoniale, e il rito della dextrarum iunctio. Una donna anziana (pronuba) era chiamata a unire le destre degli sposi nelle sue mani. Questo momento sanciva il culmine della cerimonia e del patto nuziale: gli sposi manifestavano il loro impegno a considerarsi come un essere unico.

A seguire, il banchetto di nozze, i cui avanzi bruciacchiati erano dati agli ospiti in segno di buon augurio. In serata, la sposa veniva trasferita (deductio) dalla casa paterna a quella del marito. Lo sposo fingeva di rapire la moglie spaventata (forse in memoria del ratto delle Sabine?), strappandola dalle braccia della madre e si formava il corteo nuziale illuminato da fiaccole e allietato da suonatori di flauto. La sposa aveva accanto due fanciulli che la tenevano per mano, mentre un terzo la precedeva portando la spina alba, una fiaccola di biancospino, simbolo di fecondità. Vi era anche un giovane di nascita libera e nobile recante un vaso contenente gli arnesi del lavoro femminile e vi erano due serve che reggevano fuso e conocchia. Lo sposo faceva distribuire noci, simbolo di fecondità.

Nel frattempo si invocavano le divinità protettrici delle nozze: Giove e Giunone (ai quali era attribuita l’istituzione del matrimonio), Venere (protettrice degli amori), Diana (protettrice dei feti) e Fides (personificazione di una delle virtus chieste alle matrone romane).

Una volta davanti casa, la sposa ungeve l’architrave della porta d’ingresso con grasso di maiale e la ornava con bende di lana. Alla domanda del marito Chi sei? rispondeva con la formulazione rituale Ubi tu Gaius ego Gaia. Due amici dello sposo la sollevavano da terra e la portavano in casa, per evitare che inciampasse sulla soglia, evento considerato di cattivo auspicio.

Il marito la riceveva in casa con un’urna di acqua purissima e un tizzone di fuoco, elementi che probabilmente simboleggiavano la vita coniugale. Si compivano poi le preghiere di rito e si invocavano il Genio familiare del marito e le divinità domestiche. La pronuba accompagnava poi la sposa in camera da letto dove trovava il lectus genialis ornato di porpora e coperto dalla toga, forse come augurio di figli maschi o come segno del dominio del marito. Qui lo sposo le scioglieva la cintura verginale.

Il giorno dopo la sposa poteva vestire per la prima volta gli abiti matronali ed era tenuta a sacrificare ai Lari e ai Penati e riceveva doni dal marito. A concludere, un banchetto con i soli parenti degli sposi.